giovedì 9 marzo 2017

L'abbraccio empatico nella relazione terapeuta - paziente


    





Il libro di Grossman “L'abbraccio” ci aiuta a rappresentare il concetto di empatia e a descrivere gli aspetti emotivi della relazione madre - bambino e  la tardiva assunzione della funzione di holding materno nel rapporto psicoterapeuta – paziente, in una psicoterapia orientata in senso adleriano.

“L'abbraccio” è un breve racconto per bambini in cui l'autore narra il dialogo tra un bambino e una madre. Ben il piccolo protagonista del romanzo, osservando la natura, scopre l'unicità di ciascuno che vive con sgomento, che lo fa sentire solo, piccolo, limitato, bisognoso.  Egli quindi si cimenta con un naturale e fisiologico sentimento di inferiorità. Si tratta di un'esperienza che il bambino sembra proprio non accettare: troppo forte è la paura dell'isolamento e dell'abbandono.
A lenire quel dolore è la risposta della madre, rassicurante, empatica, incoraggiante: “tu sei unico e anch'io sono unica, ma se ti abbraccio non sei più solo e nemmeno io sono più sola”, grazie all'abbraccio siamo un po' soli e un po' insieme agli altri “un po' così e un po' cosà...”, “proprio per questo hanno inventato l'abbraccio”.

L'esperienza empatica, così ben descritta nel romanzo di Grossman, è alla base di ogni autentica relazione umana fin dalla nascita.
Come afferma Alfred Adler il bambino, in quanto debole alla nascita, ha un primario bisogno di tenerezza, di essere contenuto, compreso empaticamente dalla madre. E' la soddisfazione di questo bisogno che gli consente di sviluppare un sentimento di coraggio e fiducia, di indirizzare la compensazione del fisiologico sentimento di inferiorità  in senso sociale.  Ogni essere umano ha un naturale bisogno di sicurezza che alimenta la sua volontà di potenza ed è grazie al rapporto con la madre che questo tratto può collegarsi all'ambiente prendendo la strada della collaborazione e della cooperazione con gli altri esseri umani.

Nella psicoterapia adleriana,  il terapeuta si serve dell'empatia come strumento per entrare in relazione intima e profonda con il paziente e assumere tardivamente la funzione di holding materno: vedere con i suoi occhi, ascoltare con le sue orecchie, sentire con il suo cuore, è una parte insostituibile del lavoro terapeutico.
Anche il paziente, come il bambino del romanzo di Grossman, quando si affaccia alla terapia è concentrato sul suo dolore che lo fa sentire diverso, solo e limitato. Lo psicoterapeuta adleriano, come la madre di Ben, non rinnega l'unicità del dolore della persona che ha di fronte ma  si mette in contatto con quel dolore attraverso le proprie ferite: vibra al vibrare delle corde dell'altro nella melodia del colloquio terapeutico. In questo modo la relazione psicoterapeuta – paziente diviene uno strumento trasformativo e il paziente fa esperienza di come le ferite e il dolore si possano trasformare in elementi di forza, in spinte vitali e propulsive se indirizzati in senso sociale.


L'empatia, in una psicoterapia adleriana, è un abbraccio, una stretta al petto che lenisce le ferite dell'anima e indica all'individuo la via per la felicità.  Questa esperienza di intimo coinvolgimento emotivo, sottolinea e rafforza la reciproca identità, autonomia e libertà dei membri della coppia terapeutica, ma apre ad un'esperienza intersoggettiva, ad una dimensione comunitaria mostrando all'individuo la strada del sentimento sociale.

sabato 26 luglio 2014

"Mal d'amore" si può guarire?


Mal d'amore: si può guarire?








Anita mi chiede una consulenza per capire come aiutare suo marito a superare la dipendenza dal gioco d'azzardo. Il marito gioca tutto lo stipendio alle slot ed è arrivato al punto di indebitarsi con amici e parenti. Lui non ritiene di avere un problema e quando ne parlano diventa piuttosto aggressivo con lei.



Anna, dopo la separazione dal marito, si è innamorata di un altro uomo che la fa soffrire. Il suo nuovo compagno vive con la moglie, che dice di non amare più e intrattiene con lei una relazione a distanza: ogni volta che decidono di incontrarsi accade qualcosa che lo impedisce. Anna soffre ma non riesce a lasciarlo.



Laura è stata tradita dal compagno, ma si mostra comprensiva nei suoi confronti e non prova rabbia. Spesso nel corso della terapia si interroga sulle ragioni che hanno portato alla crisi della relazione e alla crisi del partner, con l'intento di aiutarlo a superare questo momento.





Nel mio lavoro clinico mi capita spesso di ricevere richieste di psicoterapia o di consulto da parte di persone che non presentano una sintomatologia manifesta, ma piuttosto un problema relazionale che possiamo definire come “mal d'amore”. Si tratta di persone, più spesso donne, ma anche uomini, che vivono storie d'amore dominate dalla sofferenza, che vivono il loro rapporto sentimentale in una continua attesa di qualcosa che non si realizzerà mai: l'attesa che il partner smetta di bere, di giocare d'azzardo, lasci la moglie, trovi finalmente l'occasione per dedicare loro le proprie attenzioni. Sono relazioni dove la tenerezza e l'intimità sono vissute a tempo e non nella quotidianità, dove la stima di sé è strettamente vincolata all'amato, del quale si sente un bisogno vitale per esistere. In alcuni casi la relazione sentimentale è già finita e ciò che risulta problematico è riuscire ad accettare la fine del rapporto e la perdita della persona, nonostante le sofferenze, i tradimenti, le ferite inflitte.



Quando l'amore si trasforma in qualcosa di malsano?

L'amore è malsano quando essere innamorati significa soffrire. Quando si arriva a mancare di rispetto a se stessi per dedicarsi completamente a cercare di cambiare una persona sbagliata per noi.

Questo amore è malsano perché è dominato dalla paura: di restare da soli, di non essere degni d'amore, di essere abbandonati. E amare con paura significa attaccarsi morbosamente a qualcuno che riteniamo indispensabile per la nostra esistenza.



Da dove nasce questo modo di amare?

Chi soffre di “mal d'amore” spesso è stato un bambino non amato, trascurato. Crescendo, questa persona cerca di reiterare il suo vissuto perché solo vivendo e rivivendo l'esperienza infantile gli parrà di riuscire a liberarsene. Le persone che amano troppo non sono riuscite a cambiare i propri genitori, trasformandoli nelle persone calde e affettuose che volevano e, di rimando, rispondono con troppa passione al tipo di persona emotivamente non disponibile che è loro familiare e che possono cercare di cambiare con il loro amore. Poiché nell'infanzia non si sono mai sentite sicure, hanno un bisogno disperato di controllare il proprio partner e la relazione stessa.



Si può guarire dal mal d'amore?

Chi soffre per un amore sbagliato cerca una persona con cui sviluppare una relazione, senza prima aver sviluppato una relazione con se stessa. Corre da una persona all'altra alla ricerca di ciò che manca dentro di sé.

Si può smettere di soffrire per amore solo iniziando ad amare per primi noi stessi, per poter poi costruire un rapporto gratificante e sereno con una persona “giusta” per noi. Nessuno può amarci abbastanza da renderci felici se non amiamo davvero noi stessi, poiché quando nel nostro vuoto andiamo cercando l'amore possiamo trovare solo altro vuoto.

Una persona guarita dal “male di amare” ama tutto di se stessa e valorizza se stessa invece di cercare di trovare il senso del suo valore in una relazione. Non ha bisogno di qualcuno che abbia bisogno di lei per avere l'impressione di valere qualcosa. Non si espone al rischio di essere sfruttata per chi non ha riguardo per il suo benessere. Sa che una relazione, per poter funzionare, deve essere tra due persone che condividono interessi, valori e fini e che siano entrambi capaci di intimità. Sa anche di essere degna del meglio che la vita può offrirle.



In che modo può essere d'aiuto lo psicologo?

Lo psicologo può aiutare il paziente a prendere coscienza delle dinamiche disfunzionali che alimentano una relazione “sbagliata”. Lo psicologo inoltre può aiutare a capire che la felicità vera non è nell'altro ma in se stessi sostenendo un percorso nuovo di rinascita, basata su una maggiore attenzione per il proprio benessere psichico ed emozionale.












giovedì 9 febbraio 2012

Così è la vita

Il libro di Concita De Gregorio “Così è la vita. Imparare a dirsi addio” è un libro che nutre, che arricchisce, un libro che aiuta a guardare la vita in modo più autentico. Me ne ha parlato una paziente, Marta, in un momento importante del  suo percorso di counseling, centrato sull’elaborazione e accettazione della malattia di cui è affetta: la Sclerosi Multipla.



Quando, nel rapporto di cura, lo psicologo si dispone in modo aperto e sincero all’ascolto delle emozioni dei propri pazienti, supporta una crescita che diventa esperienza e crescita per il terapeuta stesso. Immergendosi nel mondo interno del paziente il terapeuta mette in gioco se stesso e la propria interiorità dando vita ad un processo dinamico maturativo.



Ho incontrato per la prima volta Marta dopo pochi mesi dalla comunicazione della diagnosi, incapace di accettare la malattia, shockata e sopraffatta dal dolore. Riferiva che non riusciva più a godere del tempo libero e a coltivare i suoi interessi, diceva di sentirsi una persona “priva di garanzie”.Mi raccontava che in quel periodo continuava a leggere le esperienze di persone affette dalla stessa malattia che descrivevano il loro percorso di accettazione, sottolineando come infine avessero riconosciuto gli aspetti positivi e arricchenti di quella dolorosa esperienza. Ma lei non ci trovava nulla di positivo e la considerava solo una “grande sfortuna”.

Quando un paziente ti parla in questi termini ti fa toccare con mano il limite, l’esperienza della perdita, del lutto. Ti fa vivere emozioni dolorose, perché non ci sono soluzioni da offrire, ma solo (solo?) la possibilità di stare vicino.



Per poter empatizzare meglio con le emozioni di Marta, capire che cosa stava vivendo, attinsi alle mie esperienze personali con la limitatezza. Pensai al mio percorso di analisi personale e a come la speranza di superare i miei limiti, le mie inadeguatezze avesse a poco a poco fatto strada alla capacità di accettare e accogliere le mie fragilità, come una parte importante di me. Proprio la mia limitatezza, in quel momento, mi stava aiutando ad entrare in risonanza con una persona.



Dissi a Marta che la capivo e condividevo l’idea che le fosse capitata una grande sfortuna: la diagnosi di sclerosi multipla, trattandosi di una malattia cronica, si accompagna a vissuti di perdita paragonabili e un vero e proprio lutto. Provai però a ipotizzare con lei che anche quell’esperienza, per quanto terribile, potesse essere considerata arricchente, perché passare attraverso un’esperienza dolorosa e superarla è fonte di crescita e di maturazione personale.



Restammo su questi temi e su queste emozioni per qualche seduta e Marta sembrava sollevata dalla possibilità di poter esprimere sinceramente ciò che stava provando con un ascoltatore attento e partecipe. Poi, negli incontri successivi, la paziente cominciò a parlare di altro e a portare emozioni nuove. Mi spiegò che l’immagine con cui visualizzava la malattia era cambiata: se prima si sentiva come un puntino all’interno di un cerchio che la inglobava, adesso la malattia le sembrava come una sorta di bagaglio da portare, scomodo ma non totalizzante. Mi riferì che, da quando c’era la malattia, riusciva a gestire meglio il rapporto con le persone, era diventata più disponibile, più empatica.  Cominciò a parlare di un viaggio che stava progettando per le vacanze di Natale, riferì di aver ripreso a fare sport. Mi disse infine di aver letto il libro di Concita De Gregorio, ma “adesso basta voglio leggere altro: fumetti, cose allegre”.



Il libro di Concita De Gregorio è arrivato a questo punto del nostro dialogo e ci ha portato un po’ più su, fino a toccare il senso più autentico della nostra esistenza.

Si tratta di un libro che parla del dolore, del lutto, della fragilità umana in modo leggero, allegro, gioioso. Ma cosa c’è di gioioso nel dolore?

Viviamo in una società dominata dalla cultura della forza, del successo, della salute, dell’immortalità. Una società in cui la morte, la vecchiaia, la malattia sono esperienze che si preferisce dimenticare; in cui non c’è spazio per un’educazione emotiva all’insuccesso e alla sofferenza.

In questo contesto culturale, caratterizzato dal superamento di ogni limite, quando il limite si presentifica nelle nostre vite ci coglie del tutto impreparati e diventa difficile da vivere e da accettare.

Eppure il dolore, la morte, la malattia, i limiti, non sono eccezionali scherzi del destino ma una parte importante e fondante della nostra esistenza che ci accomuna tutti in quanto esseri umani fragili e mortali.

Dunque, proprio da questa intima accettazione di un destino condiviso può nascere un sentimento di gioia e una grande forza: “così è la vita” ed è così per tutti.

Il dolore se è vissuto in solitudine rischia di trasformarsi in disperazione e rabbia, ma quando si ha il coraggio di vivere fino in fondo questa esperienza e condividerla può trasformarsi in sollievo, senso di pienezza e allegria.



Insieme a Marta  ho condiviso il dolore e la gioia dell’elaborazione della malattia e ho imparato ancora una volta come si possa attraversare il dolore e trasformarlo in forza, perché ogni fine è un nuovo inizio e ogni morte genera una rinascita.



NOTA: A tutela della privacy della mia paziente ho utilizzato un nome fittizio

mercoledì 18 gennaio 2012

Il Gioco d'Azzardo Patologico

Da qualche anno mi occupo di gioco d’azzardo patologico e ho modo di parlare con molte persone direttamente coinvolte in questo tipo di problema. Spesso queste persone mi riferiscono di aver già fatto, prima di decidere di rivolgersi a dei professionisti, dei tentativi di smettere di giocare da soli che sono però risultati fallimentari e hanno portato a ricadute ancora più gravi. Questo si spiega per il fatto che la dipendenza dal gioco non è un comportamento consapevole ma una dipendenza patologica, pertanto non è sufficiente la volontà personale per smettere, ma occorre rivolgersi a strutture e servizi specificamente preparati per affrontare questa patologia.

Cercherò di descrivere sinteticamente i segnali per riconoscere quando il gioco è un problema e di offrire qualche primo utile suggerimento per affrontare questo disagio.



Il gioco d’azzardo patologico


Il gioco è una attività universale che interessa non solo tutti gli esseri umani, ma anche molte specie animali.  

Il gioco d’azzardo si differenzia dagli altri giochi perché è fondato prevalentemente sulla fortuna più che sull’abilità. Il termine azzardo significa “attività rischiosa”: nel gioco d’azzardo l’elemento casuale è fondamentale mentre l’abilità conta poco o nulla, e da ciò origina il rischio.

Il gioco d’azzardo è stimolante ed eccita sul lato psicofisico il giocatore: mettere a rischio una certa somma con la possibilità di ottenerne di più, ma anche di restare senza nulla, provoca un brivido che per alcune persone può essere molto gratificante.



Il gioco d’azzardo è considerato patologico quando si tratta di un comportamento persistente, ricorrente ed inadeguato  caratterizzato da eccessivo coinvolgimento in termini di tempo, denaro e spazio mentale occupato dal gioco.



Il gioco eccessivo è stato per lungo tempo considerato un comportamento vizioso di persone dal

carattere debole. Questo punto di vista è attualmente inaccettabile: oggigiorno ci sono chiare

indicazioni che il gioco patologico è una vera e propria dipendenza.

Infatti le moderne indagini di investigazione delle funzioni del cervello attraverso la radiologia per

immagini (PET, Risonanza magnetica) e la determinazione dei livelli di agenti chimici coinvolti nelle

funzioni cerebrali ci stanno mostrando che il sistema nervoso del soggetto con dipendenza da

gioco mostra le stesse dinamiche che si rilevano nel cervello delle persone con dipendenza da

sostanze. In particolare esiste un particolare coinvolgimento dei sistemi neurologici che

presiedono a importanti funzioni quali: la gratificazione, la fissazione di ricordi di modelli

comportamentali, il controllo degli impulsi, la reazione agli stress. Si è accertato quindi che i

meccanismi cerebrali che sono alla base dello sviluppo e mantenimento della dipendenza sono gli

stessi sia nel caso di un coinvolgimento con alcool o droghe, sia che ci si trovi di fronte a un

comportamento di gioco eccessivo.



I sintomi che possono essere considerati come campanelli d’allarme dell’esistenza del problema sono i seguenti:

- si è eccessivamente assorbiti dal gioco d’azzardo

- si ha bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stesso stato di       eccitazione

- i tentativi di ridurre, controllare o interrompere il gioco d’azzardo sono vani

- si è irrequieti o irritabili quando si cerca di smettere di giocare

- si gioca per sfuggire ai problemi o alleviare un umore disforico (ansia, depressione ecc.)

- si rincorrono le perdite: dopo  aver perso si torna a giocare per recuperare le perdite

- si mente a familiari e amici circa il proprio giocare

- si commettono azioni illegali per trovare i soldi per giocare

- si mettono a repentaglio il lavoro, la carriera scolastica o le relazioni significative per via del gioco



Custer, un esperto americano della materia, nel 1984 distinse tre fasi nella storia del giocatore

incontrollato.



a) Fase della “vincita”

Inizialmente, durante le prime fasi di sperimentazione del gioco, il giocatore ha la netta

impressione di vincere, di essere abile nel gioco e in un periodo fortunato: ciò lo incoraggia ad

aumentare sia la frequenza delle giocate che il denaro scommesso. L’impressione di vincere è per

lo più causata da una percezione selettiva: si tiene conto soprattutto degli esiti positivi e non di

quelli negativi. A volte all’inizio accade realmente che il giocatore vinca una somma significativa e

che nasca in lui la convinzione che sia facile ricavare denaro dal gioco. Sia che la vincita iniziale

esista realmente, sia che venga solamente presunta, di fatto il giocatore aumenta il gioco e spende

più denaro. Comincia quindi ad alternare vincite e perdite, ma è difficile in quel momento tener

conto delle perdite reali dal momento che spesso l’umore è euforico e la persona è iperottimista e

sopravvaluta le proprie capacità. In alcuni casi il giocatore, soprattutto le donne e i più anziani,

possono scoprire che il gioco oltre a dar piacere è anche in grado di distogliere l’attenzione da

problemi, assilli, dispiaceri o addirittura veri e propri sintomi d’ansia o depressione esistenti in

quel periodo.



b) Fase della perdita e dell’inseguimento delle perdite

Prima o poi il giocatore si rende conto che sta perdendo denaro. Avendo vissuto il periodo

precedente come caratterizzato dalla abilità e fortuna, questa volta interpreta le perdite come un

fallimento personale e come un voltafaccia della sorte. Qualche volta arriva a sospettare che i

giochi siano stati truccati al fine di fargli perdere i suoi soldi. Le perdite sono ormai diventate

significative e il coinvolgimento eccessivo nel gioco viene nascosto ai familiari che altrimenti lo

criticherebbero e gli rinfaccerebbero il denaro perduto. Il giocatore si convince che deve rientrare

di tutte le perdite per poi dare un taglio netto al gioco: tende allora a tornare a giocare per rifarsi,

scommettendo cifre sempre più elevate, ma sul piano pratico il buco economico si allarga sempre

di più perché nel gioco d’azzardo resta il fatto che più si gioca, più si spende. Il soggetto diventa

ansioso, insonne, inappetente, irritabile, evita i contatti con i familiari e gli amici, si chiude nel

silenzio, trova scuse sempre meno credibili per giustificare il proprio comportamento. Può

sviluppare vere e proprie patologie da stress, come la gastrite, l’ulcera, l’ipertensione, l’infarto di

cuore. Può iniziare a indebitarsi con amici, parenti, banche, società finanziarie, in qualche caso

anche con gli strozzini. La vita ormai è profondamente incentrata sul gioco e sul procurarsi denaro,

e questo diventa anche l’unico pensiero del giocatore.



c) Fase della disperazione

Con il tempo diventa evidente che i debiti non sono più pagabili e nuovi prestiti vengono rifiutati: il

giocatore è angosciato e disperato per la situazione economica, ma continua ad illudersi di potersi

rifare con una vincita grossa. La disperata ricerca del colpo grosso è l’unica cosa che gli da la tenue

speranza di risolvere i suoi problemi, e qualcuno arriva al punto di compiere reati pur di procurasi

denaro per giocare: falsificazione di firme sugli assegni, appropriazione di denaro della ditta dove

lavora, furti, truffe, talvolta vere e proprie rapine in negozi o banche. Compaiono pensieri di

suicidio e qualche volta il tentativo di farla finita viene compiuto realmente, talora purtroppo

riuscendovi. Nonostante la consapevolezza che non è più possibile recuperare le perdite, il

soggetto continua a giocare.



Qualche volta il giocatore “tocca il fondo” e si convince a smettere di giocare.



Cosa fare allora?



Come si è detto non è sufficiente la volontà personale per smettere di giocare e spesso i tentativi di smettere da soli saranno improduttivi e scoraggianti.



Ammettere di avere un problema e di avere bisogno dell’aiuto di qualcuno per risolverlo è già  metà dell’opera.



Il processo di risoluzione del problema passa attraverso tre fasi distinte:

Fase del “Non posso”

È necessario inizialmente attivare o rinforzare i sistemi di controllo al fine di promuovere un

distacco completo dal comportamento di gioco e di raggiungere una condizione di astinenza. Il

meccanismo del controllo fa sì che il giocatore non possa giocare (nel senso che non ne ha il

permesso e la possibilità). In termini terapeutici si indica questa fase come “riduzione degli

stimoli” verso il gioco. Nel tempo ciò porta alla riduzione progressiva del desiderio di giocare, al

miglioramento dell’umore e delle relazioni, all’incremento della fiducia del giocatore in se stesso.



Fase del “Non devo”

Il giocatore che da un certo periodo è completamente astinente dal gioco può maturare grazie alla

propria esperienza la convinzione che non giocando si sta meglio. L’esperienza diretta lo porta a

considerare del tutto naturale ciò che in precedenza non era nemmeno immaginabile: vivere senza

l’azzardo. In questa fase il ricorso al controllo può essere sostituito un po’ alla volta dalla

consapevolezza personale. È rinforzato il controllore morale interno, e il giocatore si attiva per

affrontare i propri impegni, riparare ai torti fatti, pagare i propri debiti.



Fase del “Non voglio”

Il percorso di recupero può dirsi completo quando il divieto morale a non tornare a giocare si

affianca ad un recupero dei valori personali, al significato di cosa è veramente importante per la

propria vita, al ritrovare il proprio ruolo nella famiglia e nella società, alla valorizzazione di aspetti

quali l’altruismo e la disponibilità verso gli altri. In altri termini c’è un progressivo recupero dei

valori spirituali propri della persona umana, consapevole di vivere in una comunità di pari dalla

quale può ricevere tanto quanto può dare.

In questo caso non ci si riferisce alla visione religiosa della spiritualità (ciò è pertinente alle scelte

personali che ognuno fa in cuor suo), ma ad una del tutto laica che ha a che fare essenzialmente

con l’idea che l’uomo è un animale sociale e che compie il proprio percorso esistenziale in una

dimensione che non può essere solamente materiale e personale, ma anche ideale e sociale.

Parallelamente al recupero spirituale e valoriale, l’ex giocatore prende sempre più le distanze

dall’idea di ottenere il successo facile, l’arricchimento senza sforzi, il miglioramento di sé basato

essenzialmente sul denaro.

Alla fine diventa evidente che l’azzardo ha sempre meno a che fare con il gioco. Quest’ultimo è

gioioso, simbolico, costruttivo e strutturante; al contrario l’azzardo crea disagio e sofferenza,

tende ad alterare e semplificare la vita mentale della persona, è distruttivo per l’individuo e i suoi

affetti.



Un giocatore che accetta di intraprendere un percorso di cambiamento deve sapere che:

a. È possibile uscire dal problema del gioco, ma soluzioni facili non esistono

b. Il denaro perduto resta perduto

c. Mantenere la segretezza tende a far perdurare il problema

d. Il cambiamento richiede sempre una certa quota di fatica

e. Generalmente è necessario un aiuto esterno, soprattutto da parte dei familiari

f. È necessario un tempo variabile da caso a caso

g. Quando si è instaurata una dipendenza non è più possibile tornare a giocare in modo moderato



Un primo passo importante per smettere di giocare è farsi aiutare da una persona vicina e fidata (di solito un familiare) nella gestione del proprio denaro e nell’organizzazione di una buona amministrazione economica: poiché non si è in grado di esercitare un controllo interno è indispensabile avere una limitazione esterna (consegnare il bancomat, non maneggiare più grandi quantità di contanti ecc.).

Alcune persone trovano che questa indicazione sia inutile, fastidiosa, irritante, a volte intollerabile.

Ciò nonostante va considerato che la limitazione della disponibilità di denaro aiuta a mettere in

sicurezza i propri beni, bloccare le perdite e limitare l’effetto di stimolo verso il gioco che spesso è

provocato proprio dall’avere soldi in tasca. L’accessibilità al denaro infatti stimola il desiderio di

giocare e a volte non avere liquidi in tasca può essere d’aiuto a controllare la voglia di giocare.



Un secondo suggerimento è quello di cercare di cambiare le proprie abitudini di vita che ruotano attorno agli ambienti di gioco coltivando i propri interessi trascurati : spesso chi gioca frequenta amici che giocano o ha l’abitudine di andare ogni mattina nello stesso bar dove la vista dei giochi diventa un’attrazione irresistibile.



E’ importante poi intraprendere un percorso di cura affidandosi a chi ha una specifica esperienza del problema. L’efficacia dei trattamenti è stata dimostrata scientificamente. Esiste una vasta gamma di possibilità per essere aiutati: i servizi territoriali, le strutture residenziali, i giocatori anonimi, gli specialisti ecc. Non esiste un programma adatto per tutti: se una modalità di cura non ha funzionato con un particolare individuo, un’altra potrebbe sortire un effetto positivo.



Il sevizio Giocaresponsabile fornisce, a chi soffre di problemi e disagi legati al gioco, in forma gratuita e anonima,  consulenza psicologica e legale e  informazioni relative ai percorsi di cura. Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.giocaresponsabile.it o contattare i professionisti mediante chat o telefono al numero verde 800.921.121 dal lunedì al sabato dalle 9,00 alle 22,00.








mercoledì 7 dicembre 2011

Differenza tra Counseling e Psicoterapia

Nella mia attività clinica mi occupo di psicoterapia, ma effettuo anche percorsi di counseling. In particolare, da anni, gestisco uno sportello di counseling per persone affette da Sclerosi Multipla e loro familiari. Ma che differenza c’è tra counseling e psicoterapia? Spesso le persone di cui mi occupo me lo chiedono, cercherò quindi di dare una risposta il più possibile chiara e comprensibile.

 

La psicoterapia
La psicoterapia è un processo di interazione tra due persone ,psicoterapeuta e paziente, che si pone l’obiettivo di superare i problemi psicologici e alleviare il malessere  di quest’ultimo.
I problemi psicologici portati dal paziente possono andare da forme lievi di disadattamento a forme più gravi di alienazione. La psicoterapia cerca l’origine del disturbo psichico per favorirne la guarigione con un lavoro di ristrutturazione dell’intimo della persona anche profondo.
Una persona inizia una psicoterapia perché avverte dei problemi (sensazioni, emozioni, comportamenti) che la limitano e le impediscono di avere una vita completa e appagante. Questi problemi non sono causati tanto da eventi esterni attuali, ma piuttosto da autoinganni disfunzionali, espressione di uno stile di vita inadeguato che la persona tende a reiterare nel tempo.
Lo psicoterapeuta utilizza la parola, l’ascolto, la relazione come strumenti di un processo di consapevole trasformazione, da parte del paziente, del suo stile di vita disfunzionale.

Il counseling
Il counseling è una relazione di aiuto che si pone l’obiettivo di sostenere una persona in una fase di vita difficile (ad esempio: l’insorgere di una malattia propria o di un familiare, un lutto, una separazione) alleviando il peso di preoccupazioni e dolori grazie alla condivisione con un ascoltatore attento, sensibile e partecipe.
Nel counseling si resta centrati sul problema attuale della persona e la si accompagna nel processo di un’autonoma ricerca di soluzione o trasformazione.

In entrambi i casi strumenti della relazione di aiuto sono il dialogo e la qualità della relazione con il terapeuta; ciò che differisce è il livello di profondità del dialogo stesso e la durata dell’intervento.
Mentre la psicoterapia è un percorso di esplorazione di sé che può durare anche anni, il counseling è un intervento di breve durata che si propone di trovare una risposta ad un disagio attuale, spesso causato da un evento esterno ben preciso

La psicoterapia, dal punto di vista professionale, è una professione riservata a medici e psicologi iscritti ai rispettivi Ordini professionali che abbiano conseguito uno specifico percorso formativo post lauream presso una scuola di specializzazione in psicoterapia riconosciuta Attualmente in Italia il counseling invece non è una professione regolamentata: non esiste un percorso formativo obbligatorio e l’obbligo di iscrizione a un albo professionale.

Personalmente ritengo rischiosa la non regolamentazione della professione di counselor che consente a chiunque di svolgere questa delicata professione.

Il paziente, di fronte ad un ascoltatore attento, empatico e non giudicante si apre a diversi livelli di intimità ed è compito del terapeuta dirigere la conversazione e gestire il giusto livello di profondità a seconda dell’intervento che si propone di effettuare. Mi chiedo come questo difficile compito possa essere gestito da una persona senza competenze psicologiche.